Avevamo finito di cenare, il mio amico Ivaldo Vernelli e io, si chiacchierava. «Per me,» dice Ivaldo, e di colpo mi sembra che abbia acceso una luce, «è sempre stato importantissimo il piacere della conoscenza». Non ci avevo pensato, ma suona semplice e esatto: certo: il gusto di conoscere le cose, le capitali dell’Asia, le bandiere; poi, con gli anni, curiosità diverse, ma lo stesso desiderio di soddisfarle; e alla fine, ogni tanto, il piacere di avercela fatta. Non era poi in questo modo che passavano il tempo Aristotele e Platone? Non nascono dalla curiosità le grandi domande su cui per secoli si sono costruite la filosofia e la filosofia naturale, in seguito chiamata scienza?
Una domanda fondamentale è da dove veniamo e dove andiamo, la prima parte della quale suscettibile di approfondimento con gli strumenti della scienza. Ma questi strumenti si sono formati di recente. Per secoli, quanti si interrogano sulle origini del pianeta e della vita dispongono solo di pochissime conoscenze e non possono arrivare lontano. Aristotele è convinto che la Terra esista da sempre; Lucrezio invece pensa che si sia formata di recente, visto che non ha mai sentito storie precedenti alla guerra di Troia. I cinesi del primo secolo d.C. e i Maya la vedono diversamente da entrambi: credono che la Terra venga ciclicamente distrutta e poi ricreata (su per giù ogni 23 milioni di anni secondo i cinesi, più spesso secondo i Maya). Per loro, e per quasi tutti in Occidente, l’universo, e gli organismi che lo abitano, sono frutto di uno o più atti di creazione divina. Se si tratta di creazione divina, per stabilire quando sia avvenuta ci si può rivolgere alla Bibbia. Secondo l’analisi del Vecchio Testamento pubblicata nel 1647 da John Lightfoot, Vice cancelliere (vuol dire Rettore) dell’Università di Cambridge, la data sarebbe 3928 a.C.. In seguito un prelato irlandese, James Ussher, l’anticipa al 22 ottobre 4004 a.C. (verso sera) e piazza il Diluvio Universale nel 2349. Che animali e piante siano stati creati direttamente come li conosciamo noi non lo discute nessuno. Ma alla fine del Seicento si cominciano a scoprire affinità e somiglianze fra i viventi. Nelle tredici edizioni del suo Systema naturae, Carlo Linneo mette insieme un catalogo sistematico di tutti gli animali e le piante. E c’è chi nota somiglianze fra specie diverse, e si immagina che esista fra loro una gerarchia, dalle forme più semplici a quelle più complesse.
È la Grande Catena dei Viventi: un’idea che resterà in circolazione a lungo, se ancora nel 1873 il grande naturalista tedesco Ernst Haeckel proporrà un albero genealogico dell’umanità che, attraverso 22 stadi intermedi, rintraccia le nostre origini nell’ameba. È un’idea sbagliata: gli organismi unicellulari di oggi, come l’ameba, non sono gli antenati dei mammiferi di oggi, ma solo remotissimi parenti (siamo tutti parenti): se non altro perché gli antenati, per definizione, stanno nel passato e non con i loro discendenti nel presente. Ma nella scienza certe idee, anche certe idee sbagliate, possono essere fertili, se mettono in moto ragionamenti che, a lungo andare, porteranno da qualche parte. È così in questo caso. Negli stessi anni vengono alla luce i primi fossili: mammut, tigri dai denti a sciabola. Certo, sono un po’ come gli animali che conosciamo, ma sono anche diversi. Dove sono finiti, e che rapporti hanno con gli animali di adesso? Ai primi dell’Ottocento, Georges Cuvier, il padre dell’anatomia comparata, capisce che alcuni fossili ritrovati in Olanda e in Germania sono appartenuti a rettili, e dall’esame degli strati rocciosi in cui erano immersi deduce che provengono da un’epoca precedente a quella dei mammut: l’età dei rettili, scrive, ha preceduto l’età dei mammiferi.
L’eco di questa scoperta è immediata. Nel 1824 a Stonesfield, in Inghilterra, William Buckland, geologo e teologo, si imbatte nella mandibola di un rettile così grande da meritarsi il nome di Megalosaurus. Altri fossili del genere lo seguiranno, finché, nel 1840, sir Richard Owen li battezzerà dinosauri, letteralmente “rettili terribili”.
Intanto anche le stime dell’età della Terra si spingono sempre più indietro. Lord Kelvin calcola i tempi necessari perché una sfera incandescente delle dimensioni della Terra si raffreddi al punto da formare una crosta solida: fra 20 e 400 milioni di anni. Lì per lì sembra un’enormità, ma in realtà è una sottostima: Kelvin non tiene conto del calore generato dal decadimento dei materiali radioattivi. Se si incorpora questo fattore nei calcoli, allora si arriva alle stime attuali, 4 miliardi e mezzo di anni. In questo enorme lasso di tempo, per strano che possa sembrarci, i dinosauri ci stanno vicini. Hanno dominato il nostro pianeta nel Mesozoico, cioè fra 250 e 65 milioni di anni fa.
Questo non deve farci dimenticare, però, che fra loro e noi c’è un lungo intervallo. Le prime forme del genere Homo compaiono un po’ più di due milioni di anni fa, cioè oltre 60 milioni di anni dopo la loro estinzione. I vecchi film in cui i dinosauri attaccano gli uomini delle caverne non ce la contano giusta. Oggi siamo sicuri che non solo non li abbiamo mai incontrati, i dinosauri, ma, contrariamente a quanto pensava Haeckel, non discendiamo neanche da loro. Ma non vuol dire che con loro non c’entriamo proprio per niente.
I dinosauri erano rettili, e i rettili, con i mammiferi, gli uccelli e gli anfibi, fanno parte dei tetrapodi. Se mettiamo insieme il concetto, lamarckiano e poi darwiniano, che specie diverse discendono, con modifica, da antenati comuni, e i moderni metodi di datazione dei fossili e di analisi del DNA, possiamo affermare con una certa sicurezza che tutti noi tetrapodi discendiamo da un antenato comune vissuto intorno a 360 milioni di anni fa. Come fosse fatto, questo antenato comune, al momento, non lo sa nessuno. Dunque noi e i dinosauri qualche relazione evolutiva ce l’abbiamo – il che non sorprende, perché tutte le forme viventi conosciute sono imparentate, tanto è vero che traducono nello stesso modo in proteine l’informazione contenuta nel loro DNA. Dal punto di vista strettamente biologico, la storia potrebbe finire qui: i grandi rettili che hanno dominato la Terra nel Mesozoico non sono più fra noi, anche se probabilmente un piccolo gruppo al loro interno si è evoluto negli attuali uccelli.
Alla fine del Mesozoico, i primi mammiferi occupavano un posto molto piccolo nella biodiversità del Pianeta, ma dopo la scomparsa dei dinosauri hanno avuto modo di diffondersi. Dal punto di vista intellettuale, però, le cose non sono così semplici. Da quando esiste la parola dinosauro, la nostra curiosità per queste enigmatiche creature ha prodotto, oltre che migliaia di studi scientifici, una sorprendente quantità di leggende, bufale, gadget, t-shirt e giocattoli. La pagina di Wikipedia dinosaurs in fiction (non esiste la pagina corrispondente in italiano) elenca 142 film, 46 romanzi e 103 videogiochi. La scivolata scientifica più divertente risale al 1994, quando un gruppo americano pubblica sulla prestigiosa rivista Nature la sequenza del DNA di un dinosauro di 80 milioni di anni fa. Un’analisi più seria, poco dopo, dimostrerà che purtroppo si tratta di DNA umano, verosimilmente lasciato sul fossile da uno dei genetisti che l’hanno studiato. Quanto alla fiction, la vastissima produzione comincia nel 1914 con un dinosauro buono, per quanto capriccioso, nel cartone animato di Winsor McKay Gertie the dinosaur. Ma si tratta di un episodio isolato; già nello stesso anno, con il suo Brute force, David W. Griffith ci presenta invece un dinosauro spaventoso, programmato per uccidere: un capovolgimento di prospettiva di grande successo fino a oggi, Jurassic park compreso. Potranno variare il livello di mostruosità o di crudeltà o di dabbenaggine (dinosauri intelligenti se ne ricordano pochi), ma quel mostro sarà, da allora in poi, il dinosauro della nostra immaginazione.
C’è però una significativa eccezione: in casa dei Flintstones di Hanna e Barbera (cioè degli Antenati) vive Dino, un piccolo dinosauro viola che ha le movenze e le esigenze di un cagnolino, mentre gru e ascensori sono rimpiazzati da servizievoli brontosauri. Flintstones a parte, col tempo la dabbenaggine diventerà più importante della crudeltà, tanto che oggi si chiamano spregiativamente dinosauri individui accusati di non essere più al passo coi tempi (per esempio, il vecchio gruppo dirigente del PD, a detta del nuovo gruppo dirigente del PD). Forse è anche per questa riduzione del dinosauro a una bestiaccia brutale e priva di spessore psicologico, che di quanti se ne sono occupati nella finzione letteraria o cinematografica il mio preferito resta Italo Calvino: l’unico ad aver provato ad avvicinarci ai sentimenti di queste temibili creature, sottraendole al destino di mostri sanguinari (e totalmente prevedibili nel loro agire). Gli cedo la parola per queste righe conclusive, dal nono capitolo delle Cosmicomiche: «Misteriose restano le cause della rapida estinzione dei Dinosauri, che si erano evoluti e ingranditi per tutto il Triassico e il Giurassico e per 150 milioni di anni erano stati gli incontrastati dominatori dei continenti. Forse furono incapaci di adattarsi ai grandi cambiamenti di clima e di vegetazione che ebbero luogo nel Cretaceo. Alla fine di quell’epoca erano tutti morti. Tutti tranne me, – precisò Qfwfq, – perché anch’io, per un certo periodo, sono stato dinosauro: diciamo per una cinquantina di milioni di anni; e non me ne pento: allora a essere dinosauro si aveva la coscienza d’essere nel giusto, e ci si faceva rispettare. Poi la situazione cambiò, è inutile che vi racconti i particolari, cominciarono guai di tutti i generi, sconfitte, errori, dubbi, tradimenti, pestilenze. Una nuova popolazione cresceva sulla terra, nemica a noi. Ci davano addosso da tutte le parti, non ce ne andava bene una. Adesso qualcuno dice che il gusto di tramontare, la passione di essere distrutti facessero parte dello spirito di noi Dinosauri già da prima. Non so: io questo sentimento non l’ho mai provato; se degli altri l’avevano, è perché già si sentivano perduti».
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