Gran Bretagna. Curiosa iniziativa: Zaha Hadid Architects (oltre 80 designer) inventano ingegnose cucce per cani, cucce alternative e progettualmente raffinate. L’intento, qui, è nobile: a maggio 2018, gli ideatori metteranno all’asta, durante un galà di ricconi, le preziose casette canine. Il ricavato verrà utilizzato per aiutare 40.000 animali malati, feriti e senzatetto, attraverso Blue Cross for Pets, una sorta di Croce Rossa che fornisce assistenza ai clochard a quattrozampe.
Ben altre cucce, però, “currunt” come dicevano i latini, a simbolo degli attuali “mala tempora”: sono quelle che, insieme con altri inarrivabili accessori per animali, si trovano in rete (e in negozi specializzati) e vengono vendute a prezzi esorbitanti. Scrive uno dei tanti che le vende: «Non sono semplici oggetti, ma hanno l’anima di chi crede nella bellezza e nel gusto sinonimo di eccellenza. Uno stile caldo, raffinato e allo stesso tempo accattivante, estremamente unico nel suo genere sintesi di lusso, eleganza e modernità. Prodotto unico dalla doppia personalità: complemento d’arredo dal design ricercato e dimora confortevole a cinque stelle per i “cuccioli di casa».
I cani pentastellati (Beppe Grillo non c’entra, una volta tanto) possono scegliere fra vari modelli: si va dai 2.990 euro per avere una «struttura realizzata a mano in solido legno multistrato curvato a vapore con piedini di sostegno in olivo/noce con la possibilità di inserire (a richiesta) pietre e ornamenti incastonati a mano» ai 4.800 se il padrone non può fare a meno di una cuccia «nella prestigiosa lavorazione del ricercato capitonné». Fino ai 5.140 se il cane (si fa per dire) è un fanatico del «design sferico in acciaio grezzo, scaldato a fiamma e deformato in maniera irregolare con apertura battuta a mano con effetti smerigliatura». Allo stesso prezzo è acquistabile una cuccia sovrastata da una tensostruttura che neppure Santiago Calatrava avrebbe osato concepire «con sfera irregolare e led a basso voltaggio sulla sommità» per creare «un tenue, riposante e rassicurante effetto luminoso».
Nascono così le cucce in stile vittoriano; quelle che si riproducono il Taj Mahal; quelle, dette Cubics, che seguono, con buona pace di Henry van de Velde, le rigide regole della Bauhaus. O quelle i cui interni, strabordanti di arredi baroccheggianti, sembrano ideate da Lorenzo Mongiardino: fra queste va annoverata la casetta dei chihuahua di Paris Hilton costata 325.000 dollari.
Catarsi canina, il designer marchigiano Marco Morosini, direi provocatoriamente, si è incarnato «in un animal designer dando vita a sei cucce concepite come templi per Dei a quattro zampe. I cani domestici sono divinità allo stato brado, affezionate e sentimentali, che ora abitano una dimensione umana da noi creata. Il cane diventa un dio».
Bazzecole italiote, comunque, quanto a costi, rispetto al bungalow progettato dall’architetto britannico Andy Ramus per due alani di proprietà di un un noto chirurgo inglese. Costo, incredibile dictu, 300.000 euro: i due bestioni dormono in camere separate, una per cane, sono costantemente monitorati da telecamere, utilizzano un impianto audio da 20.000 euro e guardano la tv su uno schermo al plasma da 52 pollici (non è noto quali programmi gradiscano) e, per concludere la dura giornata, si godono un bel massaggio alla dog-spa.
Alice Williams è la responsabile di una delle maggiori aziende di cucce per cani-paperoni. Spiega: «Tutto nasce dal fatto che, se si possiede una villa lussuosa e molto ampia, anche il vostro amato cane deve poter giovarsi di questo benessere, anche se altri possono magari giudicarlo eccessivo. Così abbiamo cominciato a disegnare e realizzare piccoli edifici in legno e altri materiali resistenti, per offrire uno spazio elegante e raffinato anche alle mascotte delle famiglie con alto potere economico. Ma essere ricchi non è una colpa…». Non è una colpa, però, neppure essere un cane che, passivamente, viene fatto oggetto delle ambizioni del padrone. Anche se rimpiango i tempi in cui i cani erano lupi.
Mi viene in mente una scena di quel meraviglioso film di De Sica e Zavattini, “Miracolo a Milano”, laddove un poveraccio, lottando con la grammatica, si disperava: «Mio nonno fava i matoni, mio padre fava i matoni, io faccio i matoni pure me, ma la mia casa ‘ndov ‘è?».