Categoria: Rettili

  • Come è nato il guscio delle tartarughe – Galileo (Comunicati Stampa) (Blog)

    Tra l’Eunotosaurus, antichissimo rettile (vissuto circa 260 milioni di anni fa) ritenuto l’ultimo antenato dell’attuale ordine Testudines, e l’Odontochelys (risalente a 220 milioni di anni fa), prima paleo tartaruga a tutti gli effetti, esiste un gap di circa 40 milioni di anni in cui questi animali dovrebbero aver sviluppato il loro caratteristico guscio, e di cui fino a oggi non avevamo alcuna testimonianza fossile. Un nuovo reperto, descritto in uno studio su Nature, arriva però a riempire il vuoto: si tratta dei resti della Pappochelys rosinae, una specie risalente a 240 milioni di anni fa, la cui analisi getta nuova luce sull’origine evolutiva delle tartarughe e del loro enigmatico guscio.

    I resti della Pappochelys rosinae (il nome deriva dal greco e vuol dire qualcosa di simile a “nonno tartaruga”) sono stati scoperti in Germania, e come spiegano su Nature Rainer R. Schoch, del Staatliches Museum fur Naturkunde di Stoccarda e Hans-Dieter Sues, del National Museum of Natural History di Washington, potrebbero rappresentare uno dei passi nell’albero evolutivo delle tartarughe. Si tratta infatti di un animale lungo circa 20 centimetri, privo di guscio, ma munito di un resistente involucro osseo intorno alla pancia, e di costole con una sezione a “forma di T”, caratteristiche dell’ordine delle Testudines, che rappresenterebbero l’inizio del percorso evolutivo che ha portato allo sviluppo del guscio.

    Il luogo del ritrovamento, i resti di un antico lago, indicherebbe inoltre che questo animale vivesse in un ambiente almeno parzialmente acquatico, e indicherebbero che il guscio potrebbe essersi quindi evoluto per proteggere gli organi delle tartarughe e regolare il galleggiamento durante le immersioni.

    Il cranio della Pappochelys presenta inoltre caratteristiche che lo collegherebbero a quello dei lepidosauri (rettili da cui derivano lucertole e serpenti), e sembrerebbe quindi indicare che le moderne tartarughe siano evolutivamente più vicine ai rettili attuali piuttosto che al gruppo degli archeosari (da cui discendono invece coccodrilli e uccelli).

    Come spiega Discover Magazine, questa scoperta potrebbe concludere un aspro dibattito infuriato negli ultimi anni sulle parentele evolutive delle tartarughe. Gli studi genetici degli ultimi decenni avevano prodotto infatti risultati discordanti. Un analisi del dna mitocondriale svolta nel 1998 sembrava infatti indicare che fossero imparentate più strettamente con gli archeosauri, mentre un’analisi del 2012, che sembra confermata dalla scoperta della Pappochelus rosinae, svolta sul microRna, sembra dimostrare una parentela maggiore con i lepidosauri.

    Via: Wired.it

    Credits immagine: Rainer Schoch

  • Il nonno delle tartarughe svela l’origine del loro guscio – Wired.it

    Il nonno delle tartarughe svela l’origine del loro guscio – Wired.it

    Il fossile di una nuova specie, chiamata Pappochelys rosinae, sarebbe un antenato delle tartarughe. Può aiutare a comprendere la misteriosa origine dei loro gusci

    (immagine: Rainer Schoch)

    Sono animali estremamente antichi, diffusi in tutti i continenti e quasi tutti gli ecosistemi della terra. Eppure non sappiamo quasi nulla dell’origine delle tartarughe (o Testudines, come viene chiamato più precisamente l’ordine a cui appartengono testuggini e tartarughe marine). Tra l’Eunotosaurus, antichissimo rettile (vissuto circa 260 milioni di anni fa) ritenuto l’ultimo antenato dell’attuale ordine Testudines, e l’Odontochelys (risalente a 220 milioni di anni fa), prima paleo tartaruga a tutti gli effetti, esiste un gap di circa 40 milioni di anni in cui questi animali dovrebbero aver sviluppato il loro caratteristico guscio, e di cui fino a oggi non avevamo alcuna testimonianza fossile. Un nuovo reperto, descritto in uno studio su Nature, arriva però a riempire il vuoto: si tratta dei resti della Pappochelys rosinae, una specie risalente a 240 milioni di anni fa, la cui analisi getta nuova luce sull’origine evolutiva delle tartarughe e del loro enigmatico guscio.

    I resti della Pappochelys rosinae (il nome deriva dal greco e vuol dire qualcosa di simile a “nonno tartaruga”) sono stati scoperti in Germania, e come spiegano su Nature Rainer R. Schoch, del Staatliches Museum fur Naturkunde di Stoccarda e Hans-Dieter Sues, del National Museum of Natural History di Washington, potrebbero rappresentare uno dei passi nell’albero evolutivo delle tartarughe. Si tratta infatti di un animale lungo circa 20 centimetri, privo di guscio, ma munito di un resistente involucro osseo intorno alla pancia, e di costole con una sezione a “forma di T”, caratteristiche dell’ordine delle Testudines, che rappresenterebbero l’inizio del percorso evolutivo che ha portato allo sviluppo del guscio.

    Il luogo del ritrovamento, i resti di un antico lago, indicherebbe inoltre che questo animale vivesse in un ambiente almeno parzialmente acquatico, e indicherebbero che il guscio potrebbe essersi quindi evoluto per proteggere gli organi delle tartarughe e regolare il galleggiamento durante le immersioni.

    Il cranio della Pappochelys presenta inoltre caratteristiche che lo collegherebbero a quello dei lepidosauri (rettili da cui derivano lucertole e serpenti), e sembrerebbe quindi indicare che le moderne tartarughe siano evolutivamente più vicine ai rettili attuali piuttosto che al gruppo degli archeosari (da cui discendono invece coccodrilli e uccelli).

    Come spiega Discover Magazine, questa scoperta potrebbe concludere un aspro dibattito infuriato negli ultimi anni sulle parentele evolutive delle tartarughe. Gli studi genetici degli ultimi decenni avevano prodotto infatti risultati discordanti. Un analisi del dna mitocondriale svolta nel 1998 sembrava infatti indicare che fossero imparentate più strettamente con gli archeosauri, mentre un’analisi del 2012, che sembra confermata dalla scoperta della Pappochelus rosinae, svolta sul microRna, sembra dimostrare una parentela maggiore con i lepidosauri.

    Vuoi ricevere aggiornamenti su questo argomento?

    Segui

  • L'ospedale dove i pazienti sono le tartarughe malate – il Giornale

    L'ospedale dove i pazienti sono le tartarughe malate – il Giornale

    Vasche per la riabilitazione, filtri speciali per ripulire l’acqua di mare, tavoli per gli interventi operatori più urgenti. L’ospedale delle tartarughe Caretta Caretta è nascosto al piano interrato dell’edificio più caratteristico dell’isola di Favignana: palazzo Florio. Qui, nel bel mezzo dell’arcipelago delle Egadi, una biologa marina, due veterinari e un’équipe di giovani volontari ogni giorno combattono per salvare questo rettile, da tempo nella lista rossa degli animali in via di estinzione stilata dall’Iucn.

    Il loro compito è prima di tutto sensibilizzare i pescatori locali affinché considerino questi animali una risorsa. E, naturalmente, soccorrerli quando sono in difficoltà. Il Centro di recupero delle tartarughe marine è sorto nel palazzo in stile liberty di proprietà del Comune di Favignana grazie alla collaborazione fra il colosso Rio Mare e l’Area marina protetta delle Egadi. A prima vista sembra un ambulatorio veterinario come tanti altri. Ma camminando fra le stanze con la volta altissima e i muri di tufo bianco ci si imbatte in attrezzature dalla tecnologia avanzatissima. Filtri speciali per ripulire l’acqua di mare e renderla idonea a ospitare i grandi rettili, sistemi in grado di isolare gli animali infetti, vasconi per la degenza e la riabilitazione, tavoli di acciaio per il primo soccorso.

    Il pronto soccorso della Carette Caretta è entrato ufficialmente in funzione a maggio. Ma a breve dovrebbe diventare un vero e proprio ospedale, con tanto di tavolo operatorio e strumentazione per l’anestesia totale. «Proprio come quella che si fa sugli uomini», spiegano i veterinari. «Prima che questo centro sorgesse, le tartarughe in difficoltà nelle nostre acque dovevano essere trasportate a Lampedusa – proseguono -. Adesso finalmente possono essere curate qui. E ciò permette di intervenire più tempestivamente».

    La tartaruga Caretta Caretta è uno dei simboli del mare Mediterraneo. Ma, fra pesca illegale e inquinamento, ormai da molti anni rischia l’estinzione. Esistono ancora piccoli paradisi per la sua riproduzione: il sud della Sicilia, la Grecia, la Turchia. Ma solo un esemplare su mille riesce ad arrivare all’età adulta, mentre si calcola che sono circa 130mila quelli che ogni anno sono coinvolti nell’attività di pesca. Per questo è nato il progetto Tarta Life, grazie al quale gli esemplari in difficoltà vengono rintracciati, recuperati e «ricoverati» in ospedale. Qui le tartarughe vengono prima di tutto inquadrate dal punto di vista clinico, successivamente operate – nei casi più gravi – o sottoposte a un periodo di riabilitazione nelle apposite vasche. Vengono seguite passo passo dall’équipe di medici e biologi marini e poi, una volta guarite, sono riportate in spiaggia, dove prendono la via del mare. «Questo è il momento più emozionante, che spesso condividiamo con i bambini delle scuole – spiega Stefano Donati, direttore dell’Area marina -. I nostri sforzi sono già stati premiati: l’anno scorso è stato fotografato un piccolo sulla spiaggia di Marettimo. Eravamo convinti che non esistessero nidi alle Egadi, perché la struttura delle isole non è particolarmente idonea. Ma grazie a questo avvistamento abbiamo capito che la riproduzione avviene anche qui». E qualcosa potrebbe cambiare anche per altre due specie a forte rischio: la foca monaca e la posidonia oceanica. Grazie al progetto Qualità responsabile di Rio Mare, l’Area protetta delle Egadi si è dotata di un osservatorio per controllare il passaggio degli animali e di speciali dissuasori per salvare la pianta più preziosa dei nostri fondali.

  • Il nonno delle tartarughe svela l’origine del loro guscio – Wired.it

    Il nonno delle tartarughe svela l’origine del loro guscio – Wired.it

    giugno 26, 2015

    (immagine: Rainer Schoch)

    Sono animali estremamente antichi, diffusi in tutti i continenti e quasi tutti gli ecosistemi della terra. Eppure non sappiamo quasi nulla dell’origine delle tartarughe (o Testudines, come viene chiamato più precisamente l’ordine a cui appartengono testuggini e tartarughemarine). Tra l’Eunotosaurus, antichissimo rettile (vissuto circa 260 milioni di anni fa) ritenuto l’ultimo antenato dell’attuale ordine Testudines, e l’Odontochelys (risalente a 220 milioni di anni fa), prima paleotartaruga a tutti gli effetti, esiste un gap di circa 40 milioni di anni in cui questi animali dovrebbero aver sviluppato il loro caratteristicoguscio, e di cui fino a oggi non avevamo alcuna testimonianza fossile. Un nuovo reperto, descritto in uno studio su Nature, arriva però a riempire il vuoto: si tratta dei resti della Pappochelys rosinae, una specie risalente a 240 milioni di anni fa, la cui analisi getta nuova luce sull’origine evolutiva delle tartarughe e del loro enigmatico guscio.

    I resti della Pappochelysrosinae (il nome deriva dal greco e vuol dire qualcosa di simile a “nonno tartaruga”) sono stati scoperti in Germania, e come spiegano su Nature Rainer R. Schoch, del Staatliches Museum fur Naturkunde di Stoccarda e Hans-Dieter Sues, del National Museum of Natural History di Washington, potrebbero rappresentare uno dei passi nell’albero evolutivo delle tartarughe. Si tratta infatti di un animale lungo circa 20 centimetri, privo di guscio, ma munito di un resistente involucroosseo intorno alla pancia, e di costole con una sezione a “forma di T”, caratteristiche dell’ordine delle Testudines, che rappresenterebbero l’inizio del percorso evolutivo che ha portato allo sviluppo del guscio.

    Il luogo del ritrovamento, i resti di un anticolago, indicherebbe inoltre che questo animale vivesse in un ambiente almeno parzialmenteacquatico, e indicherebbero che il guscio potrebbe essersi quindi evoluto per proteggeregli organi delle tartarughe e regolare il galleggiamento durante le immersioni.

    Il cranio della Pappochelys presenta inoltre caratteristiche che lo collegherebbero a quello dei lepidosauri (rettili da cui derivano lucertole e serpenti), e sembrerebbe quindi indicare che le moderne tartarughe siano evolutivamente più vicine ai rettili attuali piuttosto che al gruppo degli archeosari (da cui discendono invece coccodrilli e uccelli).

    Come spiega Discover Magazine, questa scoperta potrebbe concludere un aspro dibattito infuriato negli ultimi anni sulle parentele evolutive delle tartarughe. Gli studigenetici degli ultimi decenni avevano prodotto infatti risultati discordanti. Un analisi del dna mitocondriale svolta nel 1998 sembrava infatti indicare che fossero imparentate più strettamente con gli archeosauri, mentre un’analisi del 2012, che sembra confermata dalla scoperta della Pappochelusrosinae, svolta sul microRna, sembra dimostrare una parentela maggiore con i lepidosauri.

    This opera is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported License.

    Vuoi ricevere aggiornamenti su questo argomento?Segui
    TOPICEvoluzionevedi tutti

    0 comments

    &nbspGet LivefyreFAQ

    Sign in

    + Follow

    Post comment

    Link

    Newest | Oldest

  • Roberto Giacobbo rivela i segreti di Jurassic World – TV Sorrisi e Canzoni

    Un risultato ancora più notevole se si considera che «Jurassic World» è il quarto episodio di una saga iniziata con «Jurassic Park» 22 anni fa. La chiave del suo successo sta naturalmente nel fascino dei dinosauri, protagonisti assoluti del kolossal.

    Oltre al divertimento, il film prodotto da Steven Spielberg suscita anche domande e curiosità. Per saperne di più ci siamo rivolti a un esperto come Roberto Giacobbo, che ha risposto in esclusiva per Sorrisi.

    Sarà mai possibile ricreare un dinosauro in laboratorio, come nel film?

    «I paleontologi escludono che si possa estrarre Dna di dinosauro dalle ossa, perché i fossili sono praticamente dei sassi. Solo la “follia” del cinema ha potuto immaginare che si potesse recuperare il Dna dal sangue succhiato da una zanzara preistorica, poi imprigionata nell’ambra: una coincidenza che non si è mai verificata. E dubito che dopo milioni di anni il Dna possa essere ancora utilizzabile».

    I veri mosasauri erano enormi come quelli che si vedono nel film?

    «Direi proprio di no. Ma è anche normale che un film cerchi di divertire forzando la verità scientifica, altrimenti sarebbe un documentario».

    Se i dinosauri tornassero in vita, dove andrebbero a rifugiarsi?

    «Cercherebbero ciò che è più vicino alla natura: giardini e parchi. Difficile adattarsi ad asfalto e grattacieli…».

    Nel film si dice che un dinosauro simile al T. Rex aveva divorato alla nascita il fratellino. Possibile?

    «La rivista “Nature” riporta l’esistenza di un dinosauro, il Majungatholus Atopus, che ha mangiato certamente i suoi simili. Viveva in Madagascar ed era alto poco meno di 10 metri».

    Sarebbe possibile addestrare un velociraptor?

    «Pura fantasia. Un dinosauro alato avrebbe forse le stesse chance di un uccello. Ma per i rettili la possibilità di ammaestramento sono minime: io non ci proverei».

    I velociraptor erano davvero così veloci?

    «Il famoso Velociraptor Mongoliensis, così chiamato perché ritrovato in Mongolia, era alto poco meno di un uomo e arrivava a 40 all’ora, mentre l’uomo cammina a 6 km/h e, in corsa, può arrivare oltre i 35 km/h».

    L’aspetto dei velociraptor del film è attendibile?

    «Non del tutto: alcuni di loro erano dotati di un leggero piumaggio, probabilmente colorato».

    Gli altri dinosauri erano grigi?

    «Le uniche ricerche che hanno potuto suggerire la presenza di colori della pelle riguardano i dinosauri alati. Sul “tipo-rettile” non sappiamo ancora di che colore fossero».

    È vero che per i dinosauri a caccia la vista contava meno di altri sensi?

    «Di solito la caccia tra animali avviene utilizzando soprattutto udito e olfatto. Ma una dozzina di anni fa una studio universitario ha accertato l’esistenza di dinosauri che potevano vedere anche di notte. D’altra parte la famiglia dei dinosauri era molto vasta e variegata, avendo vissuto all’incirca 100 milioni di anni, mentre la prima scimmia da cui viene l’Homo Sapiens risale a “solo” un milione di anni fa».

    Come si sono estinti i dinosauri?

    «La teoria più accreditata è quella della caduta di un gigantesco corpo astrale che sarebbe precipitato nell’attuale Golfo del Messico, più o meno in Yucatan. Il meteorite avrebbe sollevato tanti detriti da oscurare il sole e raffreddare il pianeta, impedendo così la sopravvivenza di razze enormi e poco capaci di adattarsi».

    Quali sono gli animali non estinti più vicini ai dinosauri?

    «Sono gli uccelli. Durante l’estinzione dei dinosauri hanno subito una mutazione riducendo le proprie dimensioni. Dopo di loro viene il coccodrillo, sopravvissuto perché è una macchina perfetta, capace di rallentare il cuore fino a pochi battiti al minuto e di non mangiare per settimane».

    Pterodattili e pterosauri potrebbero sollevare in volo esseri umani, come avviene in «Jurassic World»?

    «Lo pterosauro, che è pure più grande dello pterodattilo, peserebbe all’incirca 80 chili… No, le loro prede erano per forza molto più piccole. Comunque tutte le volte che vi trovate un pollo nel piatto, ricordatevi che state per mangiare… un ex dinosauro!».

  • L’ospedale dove i pazienti sono le tartarughe malate – il Giornale

    Qui, nel bel mezzo dell’arcipelago delle Egadi, una biologa marina, due veterinari e un’équipe di giovani volontari ogni giorno combattono per salvare questo rettile, da tempo nella lista rossa degli animali in via di estinzione stilata dall’Iucn.

    Il loro compito è prima di tutto sensibilizzare i pescatori locali affinché considerino questi animali una risorsa. E, naturalmente, soccorrerli quando sono in difficoltà. Il Centro di recupero delle tartarughe marine è sorto nel palazzo in stile liberty di proprietà del Comune di Favignana grazie alla collaborazione fra il colosso Rio Mare e l’Area marina protetta delle Egadi. A prima vista sembra un ambulatorio veterinario come tanti altri. Ma camminando fra le stanze con la volta altissima e i muri di tufo bianco ci si imbatte in attrezzature dalla tecnologia avanzatissima. Filtri speciali per ripulire l’acqua di mare e renderla idonea a ospitare i grandi rettili, sistemi in grado di isolare gli animali infetti, vasconi per la degenza e la riabilitazione, tavoli di acciaio per il primo soccorso.

    Il pronto soccorso della Carette Caretta è entrato ufficialmente in funzione a maggio. Ma a breve dovrebbe diventare un vero e proprio ospedale, con tanto di tavolo operatorio e strumentazione per l’anestesia totale. «Proprio come quella che si fa sugli uomini», spiegano i veterinari. «Prima che questo centro sorgesse, le tartarughe in difficoltà nelle nostre acque dovevano essere trasportate a Lampedusa – proseguono -. Adesso finalmente possono essere curate qui. E ciò permette di intervenire più tempestivamente».

    La tartaruga Caretta Caretta è uno dei simboli del mare Mediterraneo. Ma, fra pesca illegale e inquinamento, ormai da molti anni rischia l’estinzione. Esistono ancora piccoli paradisi per la sua riproduzione: il sud della Sicilia, la Grecia, la Turchia. Ma solo un esemplare su mille riesce ad arrivare all’età adulta, mentre si calcola che sono circa 130mila quelli che ogni anno sono coinvolti nell’attività di pesca. Per questo è nato il progetto Tarta Life, grazie al quale gli esemplari in difficoltà vengono rintracciati, recuperati e «ricoverati» in ospedale. Qui le tartarughe vengono prima di tutto inquadrate dal punto di vista clinico, successivamente operate – nei casi più gravi – o sottoposte a un periodo di riabilitazione nelle apposite vasche. Vengono seguite passo passo dall’équipe di medici e biologi marini e poi, una volta guarite, sono riportate in spiaggia, dove prendono la via del mare. «Questo è il momento più emozionante, che spesso condividiamo con i bambini delle scuole – spiega Stefano Donati, direttore dell’Area marina -. I nostri sforzi sono già stati premiati: l’anno scorso è stato fotografato un piccolo sulla spiaggia di Marettimo. Eravamo convinti che non esistessero nidi alle Egadi, perché la struttura delle isole non è particolarmente idonea. Ma grazie a questo avvistamento abbiamo capito che la riproduzione avviene anche qui». E qualcosa potrebbe cambiare anche per altre due specie a forte rischio: la foca monaca e la posidonia oceanica. Grazie al progetto Qualità responsabile di Rio Mare, l’Area protetta delle Egadi si è dotata di un osservatorio per controllare il passaggio degli animali e di speciali dissuasori per salvare la pianta più preziosa dei nostri fondali.

  • Il ritrovamento in via de Ciccio, tanta paura per una famiglia … – Ottopagine

    Il rettile, spaventato, è subito strisciato fra la vegetazione lasciando spaventata la famiglia.

    Un attimo di spavento per entrambi, forse, che non ha permesso di riconoscere la famiglia del rettile che sarebbe potuto essere anche una normale biscia d’acqua. Del resto, nelle immediate vicinanze, ad un tiro di schioppo del Parco del Mercatello, vi è un piccolo rigagnolo d’acqua che potrebbe essere il luogo naturale del rettile, uscito dal suo habitat alla ricerca di un caldo raggio di sole.

    Dopo i ratti, adesso è il momento di incontrare i rettili con non poca rabbia da parte dei residenti della zona orientale che già sono costretti a combattere nel quotidiano col fenomeno delle blatte volanti. Il tutto mentre si continua con lo scaricabarile fra Asl e Comune di Salerno, sulle competenze a chi tocca l’ingrato compito di avviare l’opportuna derattizzazione e disinfestazione dei quartieri di Salerno. E pensare, che il caldo torrido ancora non è arrivato.

    anro

  • Serpenti in strada a Pastena – Ottopagine

    Il rettile, spaventato, è subito strisciato fra la vegetazione lasciando spaventata la famiglia.

    Un attimo di spavento per entrambi, forse, che non ha permesso di riconoscere la famiglia del rettile che sarebbe potuto essere anche una normale biscia d’acqua. Del resto, nelle immediate vicinanze, ad un tiro di schioppo del Parco del Mercatello, vi è un piccolo rigagnolo d’acqua che potrebbe essere il luogo naturale del rettile, uscito dal suo habitat alla ricerca di un caldo raggio di sole.

    Dopo i ratti, adesso è il momento di incontrare i rettili con non poca rabbia da parte dei residenti della zona orientale che già sono costretti a combattere nel quotidiano col fenomeno delle blatte volanti. Il tutto mentre si continua con lo scaricabarile fra Asl e Comune di Salerno, sulle competenze a chi tocca l’ingrato compito di avviare l’opportuna derattizzazione e disinfestazione dei quartieri di Salerno. E pensare, che il caldo torrido ancora non è arrivato.

    anro

  • Salerno – Rettili in discarica. Grosso Boa constrictor “sigillato” tra i … – GeaPress

    Salerno – Rettili in discarica. Grosso Boa constrictor “sigillato” tra i … – GeaPress

    boa

    GEAPRESS –Lungo ben due metri e mezzo. Si tratta del Boa constrictonr albino, trovato tra i rifiuti dalle Guardie ENPA di Salerno. Il grosso animale era stato abbandonato all’interno di una  scatola di plastica grande appena 50×50 cm, che era stata pure  sigillata con del nastro adesivo.

    Il luogo del rinvenimento è  vicino ad un cumulo di rifiuti a Fuorni, quartiere di Salerno. La segnalazione giunta alle Guardie della Protezione Animali, ha permesso di recuperare l’animale ed effettuare un primo soccorso.

    Il grosso rettile presenta una grave infezione alla bocca ed aveva  perso molto sangue. Allertato  il Nucleo Cites di Salerno del Corpo Forestale dello Stato, si è provveduto al trasporto presso un ambulatorio veterinario specializzato. L’ENPA informa di prossimi controlli al fine di potere risalire al proprietario del rettile. La legge, infatti, prevede pesanti sanzioni pecuniarie nel coso di illecita detenzione di tali animali, oltre che ad una denuncia per maltrattamento.

    Sul caso vi è però un particolare che la dice lunga sul tempo passato all’interno della scatola. Assieme al rettile è stata  infatti ritrovata la pelle dell’ultima muta. Segno, questo, che lascia supporre una lunga detenzione nella scatola, verosimilmente risalente ad ancor prima dell’abbandono.

    Il commercio di fauna esotica andrebbe vietato – ha commentato il Capo Nucleo della Guardie Alfonso AlberoNonostante la normativa CITES punisce severamente chi acquista fauna esotica priva di documentazione, i casi di abbandono sono sempre più comuni. Si spera ora in una riabilitazione del Boa che dovrà comunque essere tenuto “prigioniero” in qualche terrario. Ci auspichiamo una crescente etica nei cittadini accompagnata dalla consapevolezza che gli animali nascono per  essere liberi.

    L’Enpa  di Salerno  ringrazia la Polizia Provinciale per l’immediato intervento, la persona che ha segnalato la presenza del serpente e il veterinario che attualmente sta provvedendo alle cure.

    © Copyright GeaPress – Tutti i diritti riservati