Chi ha ucciso i randagi di Sciacca? E perché? Noi, e lo facciamo ogni giorno, anche in questo momento stiamo ammazzando un cane. Tutti vogliamo capire cosa sia successo ai cani randagi avvelenati a Sciacca, in Sicilia, ad esempio c’è chi pensa che la causa di una simile mattanza sia il passaggio del Giro d’Italia. Ma ciò che ha portato agli avvelenamenti di oggi non riguarda il domani, ma nasce ieri. Un ieri che dura da ormai molti anni e che ha dato vita ad una situazione fuori controllo.
Cani che vivono liberi, non sterilizzati, che fanno cuccioli a vagonate, alimentati da volontari, accalappiati e spediti al nord spesso attraverso viaggi della speranza mortali perché organizzati su mezzi non adeguati. Questo è ciò che succede ogni giorno al Sud dove molte persone cercano di gestire una situazione drammatica che invece dovrebbe essere di competenza dei Comuni i quali, a loro volta, dovrebbero chiedere consiglio a chi già si occupa di randagismo e che potrebbe davvero offrire una soluzione. Ma le istituzioni se ne fregano, perché ci sono cose più importanti di cui occuparsi. Insomma, la situazione randagismo in Italia è spesso lasciata al fai-da-te, un fai-da-te che, anche se alimentato dalla buona volontà e da obiettivi positivi (come la salvezza della vita di questi animali) non basta e non basterà mai, anzi potrebbe creare più danni che altro. Non possiamo lasciare da soli tutti i volontari che ogni singolo giorno si trovano ad affrontare situazioni che vanno oltre la criticità, non possiamo pensare che di tasca loro si occupino di questi animali, non possiamo pensare di considerare un ‘problema’ un animale in libertà, non si può intervenire quando i gruppi sono troppo numerosi, bisogna lavorare di prevenzione, bisogna attivare progetti mirati e lasciar perdere il fai-da-te.
Detto questo, per comprendere ancora meglio cosa stia accadendo ai randagi, dobbiamo fare un ulteriore passo indietro e andare cioè al momento in cui abbiamo deciso che la vita dei cani, animali e predatori liberi, dovesse essere gestita da noi umani. Noi umani che non ci ricordiamo più cosa significhi essere animali e far parte della natura, che se vediamo una formica iniziamo ad urlare che manco avessimo di fronte il T-Rex, noi umani che non lasciamo più giocare i bambini sull’erba perché se no si sporcano e si beccano le malattie e li chiudiamo in ‘Aree Bimbi’ con il pavimento in gomma all’interno di un parco cittadino.
E così noi umani, sì proprio noi, abbiamo iniziato a mettere un guinzaglio ai cani, abbiamo iniziato ad alimentarli con cibo industriale, abbiamo smesso di portarli nei boschi, abbiamo iniziato ad ‘educarli’ e cioè a spiegargli come vivere in un contesto che non era il loro e abbiamo sostituito l’appagamento delle motivazioni dei cani con un’infinità di attività ludico-sportive che davvero poco hanno a che fare con la natura di un cane. Infine, perché non eravamo ancora contenti, abbiamo iniziato a metterli in borsa perché se no le zampe si sporcano e ad avere dei tappetini assorbenti in casa in cui fargli fare la pipì e la cacca.
Insomma, abbiamo preso un animale, lo abbiamo snaturato e ci siamo dimenticati chi fosse: questo ha fatto sì che quando oggi vediamo un randagio, non riusciamo a vedere un animale libero, che ha una vita indipendente dall’uomo, che sa trovarsi il cibo da solo, che affronta la possibilità di morire molto giovane, che non profuma di lavanda, che si ammala, che si fa male, che ha un ruolo nel suo gruppo, che vive. No, noi vediamo una vittima, perché pensiamo che quel randagio sia come il cane che abbiamo in casa (che probabilmente vorrebbe vivere come il randagio): e io sono la prima ignorante che ha preso un randagio a 37 giorni e se l’è portato a casa affrontando poi un lunghissimo percorso di recupero comportamentale.
Noi ogni giorno avveleniamo e uccidiamo i cani randagi di Sciacca così come quelli di qualsiasi parte del mondo, perché noi non sappiamo più chi sia il cane, anzi non ce ne frega nulla e quindi non affrontiamo realmente la questione. Li uccidiamo quando li facciamo lavare una volta a settimana, li uccidiamo quando non gli togliamo mai il guinzaglio, li uccidiamo quando non gli facciamo leccare le pipì altrui, li uccidiamo quando li lasciamo da soli in giardino senza farli mai entrare in casa, li uccidiamo quando non li portiamo in natura, li uccidiamo quando li teniamo in braccio, li uccidiamo quando non li lasciamo relazionarsi con gli altri cani per paura delle risse. E la lista potrebbe essere ancora più lunga.
Se vogliamo salvare i cani randagi, dobbiamo iniziare a salvare i nostri e prendere coscienza che in casa c’è un animale addomesticato e che per le strade delle nostre città invece vivono animali che noi chiamiamo randagi, ma che dovremmo chiamare semplicemente cani e dovremmo difendere. Non voglio dire ‘sguinzagliamo tutti i nostri cani e lasciamoli vivere da randagi’ perché loro non ne hanno le competenze, ma lasciamo che i randagi possano continuare a vivere la loro vita, liberi.
Chi sono i cani nella foto?
La foto che potete vedere in copertina è stata scattata a Taghazout, un paesino in Marocco in cui i cani randagi convivono pacificamente e serenamente con gli esseri umani. Fino a qualche tempo fa a Taghazout i cani, quando diventavano troppi e problematici, venivano uccisi avvelenati, però grazie ad un progetto di recupero organizzato e strutturato, oggi circa 100 cani, in piccoli gruppi da 5/7 individui, si sono suddivisi un territorio abitato da circa 2.000 persone, molti di loro sono stati sterilizzati e le risorse (cibo e acqua) a loro disposizione sono limitate ai resti disponibili nelle spazzature e al poco cibo offerto dalla popolazione locale. I cani di Taghazout non vivono con gli esseri umani, per loro gli umani sono un contorno con cui non necessariamente entrano in contatto. La foto è stata scattata da Lorenzo Niccolini, lui e Clara Caspani (entrambi educatori cinofili) hanno dato il via al progetto Stray Dogs International Project che si occupa proprio di osservazione e gestione della vita dei cani randagi, progetti come questo dovrebbero essere attivati anche in Italia nella speranza di comprendere, una volta per tutte, come permettere a questi animali di vivere liberi.