Il titolo Cat Wars potrebbe far pensare a un simpatico fumetto che rivisita la nota saga di Guerre Stellari usando i gatti come protagonisti. Oppure a una raccolta di fotografie di felini che giocano e lottano fra loro. Invece si tratta di qualcosa di ben diverso: un trattato accademico, pubblicato di recente negli Stati Uniti, che suggerisce la rimozione dei gatti liberamente vaganti “con ogni mezzo necessario”. La ragione? I gatti sono una minaccia per la biodiversità.
Gli autori del libro – l’ornitologo Peter Marra, capo dello Smithsonian Migratory Bird Center, e lo scrittore Chris Santella – si basano su numerosi studi scientifici per sostenere la gravità del problema. Il più famoso fra questi è probabilmente quello riguardante Tibbs, il gatto del guardiano del faro di Stephens Island, in Australia, che sterminò gli ultimi gli ultimi scriccioli della specie Xenicus lyalli alla fine dell’Ottocento. In effetti, l’Australia è uno dei paesi maggiormente danneggiati
dalla presenza di predatori “alieni”, ossia portati nel paese in tempi relativamente recenti. Ciò dipende dal fatto che gli animali delle isole – e dei territori rimasti a lungo isolati, come appunto l’Australia – sono poco adattati alla presenza di predatori. Sulle isole gli uccelli tendono a volare di meno e a nidificare a terra, diventando quindi facile preda dei nuovi “invasori”. I danni alla fauna selvatica australiana dovuti ai gatti sono tali da aver determinato, nel 2015, l’approvazione di un piano che prevede l’uccisione di 2 milioni di gatti rinselvatichiti entro il 2020.
La soluzione dell’Australia, così come quella proposta dagli autori di Cat Wars, non può che suonare estrema, ed è infatti stata contestata tanto da animalisti quanto da eminenti scienziati. Secondo Marc Bekoff, professore di ecologia all’Università del Colorado, l’espressione “rimuoverli con ogni mezzo possibile” non può che essere interpretata come la richiesta di un’eliminazione completa e non regolata. “Mi chiedo quando si fermeranno le stragi di animali ‘in nome della conservazione'”, scrive lo scienziato.
Non è facile conciliare l’immagine del gatto come animale domestico con quella di un killer naturale che rappresenta una significativa minaccia per la biodiversità. Ma chi ha, o ha mai posseduto, un gatto lasciato libero di andare in giro, sa che può capitare di vederlo tornare indietro con una preda fra i denti, offerta al padrone come se fosse un magnifico regalo.
Diversi studi hanno cercato di quantificare l’impatto dei gatti liberamente vaganti sulle altre specie: in uno dei più recenti i ricercatori hanno dimostrato che negli Stati Uniti i gatti predano oltre ottanta specie native, e che rappresentano la seconda principale causa di mortalità fra gli uccelli. Studi simili sono stati condotti anche in Canada. Quanto all’Europa, uno studio del 2012 ha evidenziato che i gatti sono gli animali che hanno più impatto sulle altre specie: la loro predazione ne influenza 21, undici delle quali a rischio di estinzione.
“Il gatto è un predatore estremamente efficiente; la storia della sua domesticazione è legata proprio a questa sua capacità”, spiega Danilo Russo, ricercatore di ecologia all’Università di Napoli e coautore dell’unico studio sul tema mai condotto in Italia, pubblicato nel 2013 sulla rivista Mammal Biology. Russo e colleghi hanno studiato i dati dei centri di recupero dei pipistrelli in diverse regioni italiane, scoprendo che i gatti rappresentano la principale causa di ricovero di questi animali, già minacciati da diversi altri fattori come la distruzione dell’habitat e l’avvelenamento da pesticidi. “La pulsione predatoria del gatto lo spinge a cacciare anche quando è ben nutrito”, continua il ricercatore. Per questa ragione, il problema non riguarda solo le colonie di randagi, che possono creare danni importanti persino nei centri urbani (basta pensare a quanti animali possono essere messi a rischio da una colonia che vive in un parco cittadino), ma comprende anche i gatti che, pur avendo un proprietario, sono lasciati liberi di uscire.
Inoltre, il problema non è dato esclusivamente dal numero di piccoli mammiferi o uccelli uccisi. “Diversi studi dimostrano che i gatti possono anche avere effetti definiti sub-letali: la sola presenza nelle vicinanze dei siti di nidificazione riduce la capacità proliferativa degli uccelli”, spiega ancora Russo, “perché l’aumentata vigilanza nei confronti dei predatori riduce gli sforzi per procurarsi il cibo e nutrire i piccoli”.
Ma allora, qual è la soluzione?
Uno sterminio come quello proposto da Marra e Santella, e portato avanti in Australia?
“Sono state fatte sperimentazioni sull’utilizzo della campanella che, attaccata al collare, dovrebbe far fuggire l’animale minacciato”, spiega Russo. “I risultati sono però contrastanti sui mammiferi, e la strategia sembra non funzionare con gli uccelli. Pare che per la fauna selvatica sia difficile associare il suono della campanella all’avvicinarsi di un predatore”. Un gruppo di ricerca statunitense ha addirittura sviluppato un apposito collare, ampio e molto colorato, che dovrebbe mettere in allerta gli uccelli e impedire al gatto di portare a buon fine i suoi agguati.
Russo e Beckoff concordano però sul fatto che la scelta migliore è quella di cercare di contenere il randagismo (tramite sterilizzazione e promozione delle adozioni) e tenere in casa i gatti che hanno un proprietario. “Abbiamo una percezione antropomorfizzata del gatto, e pensiamo che soffra a stare sempre rinchiuso. Ma un gatto può stare tranquillamente dentro casa, purché gli vengano prestate le cure necessarie e un ambiente stimolante dal punto di vista comportamentale.
Senza contare che un gatto lasciato libero di uscire incorre in una serie di rischi che vanno dalla possibilità di essere investito alle liti con altri gatti”, commenta Russo. “Anche solo tenerli in casa di notte può ridurne l’impatto sulla fauna selvatica, perché molti mammiferi sono attivi proprio col buio”. Insomma, le resistenze sono legate più che altro al nostro modo di rapportarci con gli animali. “La vita selvatica va rispettata. Se la presenza di un gatto significa la morte di centinaia di altri animali, il problema non è solo biologico, ma anche di benessere animale”, conclude il ricercatore, “perché il benessere della fauna selvatica vale almeno quanto quello dei gatti”.