Entrano nelle scuole per sensibilizzare gli studenti contro gli atti di bullismo. Hanno accesso alle corsie di molti ospedali e case di cura. Aiutano le vittime di violenze a superare i loro incubi. Ridanno una speranza ai carcerati nelle prigioni e ai tossicodipendenti nei centri di recupero. Sono sempre più numerosi i progetti di pet therapy o, più correttamente come vengono chiamati in Italia, «interventi assistiti con gli animali». Cani, gatti, conigli, asini e cavalli – queste le cinque tipologie previste nel nostro Paese – arrivano là dove l’uomo non ha accesso: stimolano interruttori nella mente delle persone che, per diversi motivi, è avvolta dal buio. Un recente studio canadese, per esempio, ha dimostrato come l’intervento di cani prima degli esami universitari riduce lo stress della prova anche del 45 per cento, mentre la sensazione di avere energie aumenta del 37 per cento.
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Anche Sigmund Freud aveva una valida assistente con la coda: Jo-fi femmina di Chow Chow che per sette anni è stata con lui nel suo studio: il padre della psicanalisi riteneva che avesse un effetto tranquillizzante, soprattutto con i bambini, e ammetteva che gli era d’aiuto nella valutazione dei pazienti. «L’animale porta il suo mondo, la sua istintività e arricchisce l’assistenza dal punto di vista sensoriale, affettivo, motorio e ludico. Il terapeuta porta la parola. Offre un contributo razionale e cognitivo – spiega Lino Cavedon, psicoterapeuta e direttore della collana sugli interventi assistiti con l’animale edita da Erickson -. Ero responsabile di un servizio di tutela minori e mi sono trovato a dovermi confrontare con l’ennesimo caso di violenza domestica: una bimba piccola abusata dal padre che non riusciva ad aprirsi nei confronti dell’operatore maschio che voleva parlarle. In lui vedeva una figura che risvegliava il vissuto della prevaricazione, della violenza. In quel momento ho pensato al cane come presenza che permettesse alla bambina di riagganciare la propria parte affettiva ferita. Di poter permettere il contatto fisico, di ridurre le distanze. E così è stato».
Si chiamano «interventi assistiti con gli animali» perché con loro si svolge un lavoro d’équipe: nell’intervento più professionisti raccolgono le informazioni utili a fare la corretta anamnesi, per capire i bisogni del paziente e individuare l’animale giusto da coinvolgere. «Un esempio semplice: se ho un bambino non cammina e lo associo a un Border Collie, che è vivace e ha bisogno di correre, faccio un danno al bambino perché gli ricordo che non ha la possibilità di usare le gambe – spiega Cavedon –. La scelta del cane deve essere fatta per aiutare il bambino a convivere con i propri limiti, con le proprie disabilità».
Il cane è l’animale più coinvolto negli interventi assistiti e deve avere specifiche caratteristiche: «Prima di tutto deve amare le persone, trovare gratificazione nel stare a contatto con loro – spiega la Antonia Tarantini, presidente dell’associazione Aslan – e a lui si insegnano una serie di cose: deve saper fare e deve saper essere. E’ un animale che ha una personalità, un’inclinazione verso gli esseri umani a cui si aggiunge, oltre all’educazione cinofila di base, una preparazione specifica prevista dalle linee guida nazionali».
Un partner al quale si danno molte attenzione e che deve rispettare un «orario di lavoro» adeguato «Un cane da pet therapy può al massimo essere coinvolto tre ore a settimana, tre sedute di circa 45-60 minuti e non tutte nello stesso giorno – puntualizza Tarantini –. Non deve essere sotto stress, prevedendo dei periodi di riposo durante l’anno in cui non deve lavorare per evitare di sovraccaricarlo. Anche loro si meritano delle vacanze».
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