di Marco Celati – lunedì 18 gennaio 2016 ore 08:33
Un geco mi è entrato in casa, non so come abbia fatto, evidentemente ha trovato un pertugio tra le travi del solaio e ora si aggira per le stanze. Appare, scompare, è carsico, emerge da qualche anfratto come i ricordi dalla memoria. Le notti d’estate le tarantole vengono sul muro della casa, vicino alla luce: le guardo dal terrazzo. Stanno immobili, mimetizzate nel cono d’ombra, appiattite alla parete, sembra stiano dormendo poi, d’improvviso, scattano velocissime e ghermiscono l’insetto incauto che si è troppo avvicinato alla fonte luminosa. Pare che un geco possa mangiare fino a duemila zanzare in una notte: è una soddisfazione saperlo dopo essere stati pinzati senza pietà dalla zanzara tigre. La capacità del geco di aderire a qualsiasi superficie è studiata dalla scienza. Sembra dipenda dalla forza, misteriosa per me, di van der Waals, una roba di chimica o di elettromagnetica per cui si attiva un’interazione molecolare tra i milioni di peli che ricoprono le zampe e la superficie. Se si riuscissero a costruire dei guanti o una tuta fatti in quel modo potremmo anche noi camminare sulle pareti verticali. L’uomo geco incontra l’uomo ragno sul grattacielo di Forderponte e insieme sorvegliano la città. Interessati alla ricerca sugli sviluppi di tali capacità adesive anche gli anziani dell’ospizio: funzionasse anche per le dentiere…
Secondo Ovidio l’universo nasce dal movimento, dalle continue trasformazioni che la natura subisce per effetto del combinarsi degli atomi del modo e per le azioni galanti o perverse nei confronti degli uomini perpetrate dagli dei capricciosi. Tanto per fare un esempio a caso, nelle Metamorfosi, Cerere, la dea delle messi, della fertilità e della terra, cerca senza posa la figlia Proserpina, rapita da Plutone, re dell’Ade, per trarla in sposa. Sfinita dalla fatica della ricerca e assetata chiede da bere ad una vecchia che le porge una bevanda dolce di acqua con disciolto orzo tostato: un’orzata insomma. La dea beve avidamente e il figlio dell’anziana signora la irride, chiamandola ingorda. Allora la dea, irata, getta addosso al ragazzo la bevanda con l’orzo inzuppato, i cui schizzi gli macchiano indelebilmente la pelle e, tanto per correzione, lo trasforma per sempre in un geco, che i latini non a caso chiamavano “stellio” perché costellato di macchie. Così impara. Peggio della maga Circe con il malcapitato Ulisse, che almeno fu una trasformazione reversibile! Mai irridere gli dei, specialmente una dea un tantino permalosa, assetata e incazzata di suo perché non trova la figliola. Bontà divina, c’è anche da capirla! Dopotutto sempre meglio un geco dello scarafaggio in cui nella Metamorfosi di Kafka fu trasformato il povero Gregor Samsa e nemmeno ad effetto di una dea! Comunque così, secondo la mitologia greco-latina, nacque il geco o tarantola o labrena.
La labrena è una specie di geco di cui il protagonista di un racconto di Tommaso Landolfi ha particolare orrore. Spesso l’animale riesce ad entrare in casa ed in una di queste occasioni, cercando di smuoverlo dal soffitto con una lunga canna, gli cade proprio in faccia: dall’orrore del contatto, il protagonista muore. O almeno così appare ai familiari, perché in realtà lui, pur non dando alcun segno di vita, può ancora sentire. Sente che la moglie lo tradisce con il cugino durante la veglia funebre e quando sta per essere interrato, riesce con grande sforzo a emettere dei suoni che vengono sentiti: la bara viene aperta e viene portato all’ospedale. Di seguito il racconto si snoda in ancora più infauste vicissitudini che dimostrano inequivocabilmente che se si muore è meglio farlo sul serio e una volta per tutte. I migliori addii sono sempre quelli più brevi. Il racconto si conclude infatti col protagonista rinchiuso in una cella psichiatrica sulle cui pareti imbottite le labrene passeggiano.
Un geco, come tutte le estati, è tornato sul terrazzo del signor Palomar di Italo Calvino. Il signor Palomar e la sua signora stanno lì a contemplarlo, mentre scaglia la lingua, cattura e divora insetti e smarrite farfalline notturne: una strage. Preferiscono quell’immagine alla televisione che mostra altri visibili massacri in giro per il mondo, mentre “il geco rappresenta la concentrazione immobile e l’aspetto nascosto, il rovescio di ciò che si mostra alla vista”. Il geco da fermo compie limitate, ma efficienti operazioni, riduce il suo fare al minimo. E il signor Palomar si chiede se questa è la sua lezione: ”l’opposto della morale che in gioventù aveva voluto far sua: cercare sempre di fare qualcosa un po’ al di là dei propri mezzi”. A pensarci bene, il signor Palomar e la sua signora avrebbero anche potuto spegnere la televisione e trovare qualcosa di meglio da fare nelle calde notti d’estate che stare a contemplare un geco. Ma la letteratura è spesso contraria alla vita e per questo spesso si sofferma a contemplarne il rovescio e da là ci invia avvisi e non inutili indicazioni.
Insomma il geco, la tarantola o, come si dice da noi, la “terrantola”, nel suo piccolo è portatrice di memorie d’infanzia, di un mito e di una letteratura. Perché racconto tutto questo? Perché anche una “non storia” come questa ha bisogno di essere raccontata e perché mi va di farlo. Ma anche perché voglio esorcizzare il fastidio che mi dà sapere di avere in casa il piccolo intruso, l’alieno sotto forma di bestia, erede secondo Darwin di rettili spaventosi.
Ho provato a catturarlo, non più a mani nude come facevo da ragazzo, e ho chiesto un consiglio ad un amico, Antonio, costruttore di paesi, di case e di figli, il quale ha brevettato uno strumento incruento per catturare e liberare successivamente l’animaletto e mi ha dato le seguenti istruzioni.
1. Prendere una bottiglia in plastica, tipo Ferrarelle o comunque con pareti lisce;
2. tagliarla a metà e prendere la parte conica: il taglio deve essere il più possibile regolare e ortogonale alle pareti della bottiglia;
3. inserire il collo della bottiglia in un manico di scopa, fissandolo con dello scotch: i diametri dovrebbero grossomodo corrispondere;
4. attendere che il geco si posizioni sul soffitto;
5. andare sotto al geco e avvicinare lo strumento piano, piano fino ad imprigionarlo nell’imbuto;
6. muovere l’imbuto in modo da far cadere il geco nell’incavo: le pareti lisce e di plastica impediscono al geco di uscire;
7. tenendo lo strumento in posizione verticale, uscire di casa e rilasciare l’animale.
Variante: l’operazione può compiersi anche quando il geco è su una parete. Nel caso occorre schiacciare l’imbuto contro la parete e con un colpo secco, dal basso verso l’alto, far cadere il rettile nella bottiglia stessa. Attenzione: il rischio è procurare delle ferite agli arti dell’animaletto. E macchiare il muro, ho pensato cinicamente io, rammentando i miei trascorsi giovanili di crudele cacciatore di rettili e ricordandomi che sto di casa in affitto.
Ho provato a seguire le istruzioni per catturare la bestia, sperando di non fare la fine del protagonista del racconto di Landolfi e preferendo, tutto sommato e contrariamente al signor Palomar, fare altro o guardare la televisione, almeno qualche film e le partite, invece di starmene a osservare il geco. Non bevo Ferrarelle, ma acqua non gassata. Ho pensato comunque che andasse bene un’acqua qualsiasi. Nutrivo invece forti dubbi che il geco non sapesse arrampicarsi anche su una bottiglia di polietilene, sia pur liscia, nel senso della plastica, non dell’acqua: si è detto che l’animale attiva la forza di van der Waals e acquisisce superpoteri deambulatori… Però ho costruito l’attrezzo e ho atteso. La tarantola si è presentata immobilissima sul soffitto e al mio tiro velocissima è scappata. Lo fanno apposta. Insomma l’ho mancata. Si è rintanata nei pertugi che inutilmente avevo provato a sigillare con del gesso. Riaffiorerà chissà dove, chissà quando: forse emergerà dalle travi di legno, forse dalle sconnessure della scala di pietra serena della vecchia casa colonica che mi ospita e mi accoglie la sera al ritorno dal lavoro e dalla vita. Con quella tarantola ci devo convivere: studierò altri miti, altra letteratura, me ne farò una ragione. Intanto chiudo le stanze dietro di me, sperando di isolarla: soprattutto la camera da letto perché quando si dorme si è più indifesi. E il sonno porta già sogni inquieti. Dicono che avere una tarantola in casa sia una fortuna, perché caccia gli insetti e perché porta fortuna di suo: ho infatti appese al muro lucertole e tarantole comprate in Camargue, ma quelle sono finte e rassicuranti. Sono stato, nel perdurare dell’esistenza, un uomo moderatamente generoso: mi auguro allora che un po’ di fortuna il mio geco, attraverso i suoi reconditi anfratti, la vada a portare anche ai vicini ai quali, da buon vicino, auguro ogni bene, felicità e prosperità. Che la dea Cerere li benedica, e un po’ tocchi anche a loro. Sempre che non la irridano.
Marco Celati
Treggiaia, 16 Ottobre 2015
I riferimenti. Ovidio, Tommaso Landolfi, Italo Calvino e Franz Kafka sono citati nel racconto. Anche la sola citazione è un atto di presunzione da parte mia. Le forze di van der Waals esistono davvero e sono chiamate così in onore dello studioso Johannes Diderik van der Waals che per primo ne formulò la legge nel 1873.
Marco Celati