Quando pensiamo ad un perfetto connubio fra gatti ed ambiente inevitabilmente il nostro pensiero va alla Grecia, al Giappone o, per quanto riguarda l’Italia, a Roma, eppure la Campania non è affatto da meno
Sì, perché il gatto, più di ogni altro animale, è il custode incontrastato delle rovine archeologiche, l’anima gaudente ed al tempo stesso meditabonda delle bellezze costiere, l’immancabile e buffo postulante sempre pronto a carpire con la sua eleganza ed insistenza, con una diplomazia che potremmo dire meramente felina, i favori di un pescatore o di un turista di passaggio.
Gatto di Pompei
Pigri, allungati o costretti in pose che sfidano ogni legge fisica, con la loro presenza discreta ed ammaliatrice, i gatti abbelliscono la Costiera Amalfitana quanto le celebri ceramiche. Malgrado la periodica follia di qualche malvagio killer solitario, essi continuano ad abitare questi luoghi e, oramai, sono diventati elementi tipici, costituitivi del paesaggio. I loro occhi di giada o di cobalto richiamano perfino i colori delle maioliche geometriche e il loro manto variopinto, accostato ai quadri dei paesaggi marini, crea effetti d’un estetismo inenarrabile, amplificando la bellezza delle tele, in un raffinato gioco di rimandi e contrasti. In un’epoca in cui i nipponici Neko Cafè conquistano le pagine dei giornali, essi continuano a presidiare i negozi locali, così come hanno fatto i loro antenati per secoli. Dunque, nulla di nuovo sotto il sole.
Anche quando li si incrocia furtivamente a Paestum, chi potrebbe negare che in quegli esseri muti e assorti, solennemente adagiati su colonne o marmi, non si nasconda una qualche saggezza particolare, una visione del mondo che ben si adatta al popolo di Parmenide? Nessuno, infatti, può sapere cosa pensino, eppure la famosa massima del filosofo greco: “è, e non è possibile che non sia … non è, ed è necessario che non sia”, ben si adatterebbe al pragmatismo felino.
Suora gattara del Monastero di Santa Chiara
Gli sporadici gatti che, invece, si scorgono fra le rovine di Pompei, dove la fanno da padrone i cani, ci ricordano che, in fondo, siamo pur sempre nei luoghi in cui si raffigurarono per la prima volta in tutta Italia le piccole tigri. I mosaici dei gatti pompeiani li ritraggono come semplici cacciatori e carnivori ma il contatto con la religione egizia e il culto di Bastet indurranno i romani a riconsiderare il loro rapporto con essi; dal contatto con l’Egitto il gatto diventerà, assieme al cane, l’animale da compagnia per eccellenza, da allora sarà costantemente ammirato e riverito, il pesce per lui non mancherà mai!
Potremmo dire che l’amore fra i campani e i gatti si è incrinato solamente nel Medioevo, durante la caccia alle streghe. Tracce di queste spiacevoli, e per fortuna transitorie, incomprensioni si possono ancora notare per le strade di Benevento dove magri gatti neri ci scrutano con aria indagatrice e giustamente diffidente o ostile. Anche Mimmo Paladino ha scolpito un gatto esoterico e minaccioso, che ricorda le leggende sulle streghe del beneventano.
Gatto nero del Monastero di Santa Chiara
Di ben diverso tenore sono le rassicuranti e belle maioliche del Chiostro del Monastero di Santa Chiara a Napoli. Nelle maioliche settecentesche dei fratelli avellinesi Massa vi sono raffigurate schiere di gatti nutriti da una suora, una gattara ante litteram, e un famelico gatto nero è astutamente appollaiato su un tetto, in attesa di divorare gli avanzi del banchetto all’aperto. Il gatto nero ha un’aria calcolatrice ma anche meditativa e la sua figura si staglia imperiosa sullo sfondo, un paesaggio ridente e rigoglioso. Il vero protagonista della scena è proprio il gatto, non gli uomini.
Se i gatti abbondano nella storia dell’arte campana anche nella letteratura non scherzano, tanto che Giambattista Basile in “Lo cunto de li cunti” definisce Zezolla, la protagonista d’una fiaba, la “Gatta cenerentola”, alludendo alla sua presenza costante presso il focolare domestico, l’ennesima prova dell’ amore secolare che lega il popolo campano al piccolo felino.